Nemi

L'attuale territorio comunale di Nemi in età antica rientrava nella giurisdizione di Ariccia e, in parte, in quella di Lanuvio. Il nome stesso del paese ricorda quella che fu la presenza più importante di questi luoghi: il bosco sacro (nemus) di Diana.
Il bacino lacustre, per le sue particolari caratteristiche ambientali fu frequentato fin dall'epoca proto­storica; i rinvenimenti più antichi infatti risalgono al periodo neolitico (4000 a.C), a cui sono riferibili reperti litici. All'età del Bronzo medio (XV secolo a.C.) è databile un ripostiglio di asce proveniente dal versante settentrionale del lago, forse già con una funzione cultuale. Di qualche secolo successivo (tarda età del Bronzo: XII secolo a.C.) è il materiale d'impasto proveniente da Fontana Tempesta, sul versante nord­ovest, probabilmente pertinente a un abitato.
Sul lato opposto del lago, in località Le Mole, è attestata una necropoli della II fase del Ferro Laziale (X secolo a.C), riutilizzata in età arcaica e cristiana, mentre sulle rive sud-orientali sono state rinvenute tracce di capanne protostoriche. Materiale votivo, bucchero e ceramica della IV fase del Ferro Laziale (VIII-VII secolo a.C.) rinvenuto lungo il pendio nord­orientale del bacino potrebbe far pensare già in questo periodo alla presenza di un luogo di culto, là dove poi sorse il santuario di Diana. In età arcaica e classica il territorio di Nemi subì la stessa sorte di quello albano e latino in genere: Ariccia, nella cui area d'influenza si trovava la sede politica della Lega Latina (il Lucus Ferentinae) capeggiò la rivolta contro Roma, che portò allo scontro vittorioso contro gli Etruschi di Arrunte, figlio di Porsenna re di Chiusi, nel 504 a.C; ma pochi anni dopo con la battaglia del lago Regillo (499 o 496 a.C.) le città latine dovettero sottostare al Foedus Cassianum. Con lo scioglimento della Lega Latina nel 338 a.C. e la pacificazione del territorio, il controllo politico-amministrativo di Roma portò a un nuovo assetto anche topografico: venne tracciata la via Appia (312 a.C), con il conseguente spostamento lungo questa direttrice di alcuni centri, come Ariccia, che dall'originaria acropoli si spostò a Valle Ariccia, e con il crearsi di nuovi agglomerati urbani con funzione di stazioni di posta.
Anche gli insediamenti privati risentirono di questa nuova situazione e, a partire dalla media e tarda età repubblicana (II-I secolo a.C.) anche questo territorio venne interessato da insediamenti di tipo rustico e residenziale. Tra le ville sparse nel territorio nemorense si citano quelle di Pontecchio e de Le Piaggè, situate in una zona particolarmente panoramica, I sul lago, e quella di Monte Canino. Di quest'ultima si conservano imponenti strutture, tra cui un muro in opera laterizia lungo oltre 70 metri, con nicchie el speroni semicircolari rivestiti da intonaco idraulico probabilmente una fronte con funzione di ninfeo.
È verosimile che da questo insediamento o secondo altri da quelli di Monte Cagnolo e Monte Cagnoletto, nel comune di Genzano, provengano le statue di cani conservate ai Musei Vaticani.
L'area più ricca di testimonianze archeologiche resta comunque quella perilacustre. Sulla riva sudoccidentale del lago, sotto Genzano, si conservano i resti di un vasto complesso residenziale, forse identificabile con la villa di Caligola, citata da Svetonio nella sua biografia dell'imperatore, che probabilmente si insediò sulle strutture già appartenute a una villa di Giulio Cesare, la cui esistenza nel bosco aricino è testi­moniata dallo stesso autore.

Come la villa di Domiziano a Castel Gandolfo inglobava anche il lago Albano, in un susseguirsi di corpi di fabbrica e ampi spazi aperti, così quella di Caligola doveva comprendere anche lo specchio d'acqua, alternando l'abitazione vera e propria a edifìci di spettacolo, di divertimento e di culto a Diana: le due navi recuperate nelle acque del lago tra il 1929 e il 1931 possono considerarsi esse stesse palazzi galleggianti ricollegabili per un verso alla villa imperiale, per un altro al santuario della dea. Del complesso residenziale si conservano, oltre a muri, pavimenti, resti di ambienti quasi completamente nascosti dalla vegetazione, una cisterna, parte scavata nella roccia e in parte costruita, impermeabilizzata con rivestimento in opera signina e divisa internamente in due navate, un muro sostruttivo in opera incerta con contrafforti e i resti imponenti di un edificio absidato, forse un ninfeo o una coenatio (sala per banchetti). La struttura è molto interrata ed emerge per meno di 10 metri, ma doveva ergersi per un'altezza di gran lunga superiore; a circa 3,50 metri dal piano di calpestio attuale si conserva un ripiano su cui si affacciano quattro nicchie absidate, delimitato lateralmente da altrettante nicchie rettangolari. Ai lati dell'esedra una serie di muri paralleli doveva dividere tra loro alcuni ambienti perpendicolari alla struttura. Mentre questi resti sono realizzati in opera mista di reticolato e laterizio, e quindi databili al periodo imperiale, il precedente muro in opera incerta potrebbe attribuirsi alla fase repubblicana della villa, forse proprio quella appartenuta a Cesare. Dal 1998 l'impianto residenziale è oggetto di indagini da parte degli Istituti Nordici a Roma (Danimarca, Finlandia, Svezia, Norvegia).
Poche decine di metri a sud della sala absidata, poco sopra il livello dell'acqua, si raggiunge l'imboc­co dell'antico emissario, un canale realizzato nel V secolo a.C. per regolare l'altezza dell'acqua del lago. La struttura, scavata nel banco naturale fino a Valle Ariccia e da qui a cielo aperto fino ad Ardea, dove sfocia nel Fosso dell'Incastro, è preceduta da una camera d'ingresso rettangolare in opera quadrata di peperino, che doveva essere inizialmente aperta, successivamente coperta con una volta a botte e dotata di saracinesche forate che, oltre a regolare il flusso dell'acqua, impedivano il passaggio di materiali occludenti. La costruzione è ritenuta precedente di un secolo all'emissario del lago Albano, risalente ai primi anni del IV secolo a.C, ed è stata posta in relazione allo spostamento verso il lago del santuario di Diana, situato sulla riva settentrionale del bacino, che sarebbe stato possibile proprio grazie al regolamento del livello lacustre. Il bacino nemorense, come quello albano, era dotato di banchine e approdi, emersi quando il lago venne abbassato per recuperare le navi di Caligola; un tratto di banchina è conservato sotto Genzano. Si tratta di grossi "cassoni" di conglomerato cementizio che recano ancora le impronte al negativo delle casseforme di travi in legno di cerro, quercia e abete di cui costituivano il riempimento. Altri tratti di palizzate realizzate con setti in legno di quercia riempiti di calcestruzzo si rinvennero durante i lavori di prosciugamento del lago per il recupero delle navi in località Licino, San Nicola, Pantane.
Lungo il costone situato sotto il paese di Nemi, nella zona de Le Mole, che deriva il nome dalla presenza di mulini fin dal XVI secolo, sono visibili alcune grotte frequentate già in età protostorica, utilizzate come necropoli in età arcaica e successivamente rioccupate nel V-VI secolo, scavando nel pavimento tombe con copertura a cappuccina, costituita da laterizi o tegole disposti a doppio spiovente, nelle quali vennero reimpiegate lastre di marmo, peperino e laterizi di età precedente. Gli ambienti, direttamente accessibili dalla strada che conduce al romitorio di S. Michele Arcangelo, anch'esso ricavato in una grotta presso la sorgente della ninfa Egeria, vennero ampliati successivamente e utilizzati come cava e come rifugio. Gli scavi condotti nell'Ottocento hanno portato al rinvenimento di oltre quaranta deposizioni con corredi funerari, piuttosto poveri, consistenti per la maggior parte in un solo vaso posto vicino al capo.
Lungo la riva nord-orientale del lago, nella locali­tà di San Nicola, così chiamata per la presenza di una chiesa paleocristiana, di cui restano ancora scarse strutture murarie, si conservano i resti di un complesso edilizio articolato, costituito da muri in diverse tecniche: opera cementizia, reticolata, laterizia, vittata. Due absidi contrapposte in opera laterizia, separate da un muro curvilineo nel quale si apre un cunicolo, forse per l'immissione di aria calda, altri cunicoli e muri rivestiti in cocciopesto,sono probabilmente da riferirsi a un impianto termale, da porsi in relazione alla vicinanza sia dell'acqua lacustre, sia della sovrastante fonte della ninfa Egeria. La struttura è databile tra il I secolo a.C. e il IV d.C.
In età costantiniana la Massa Nemus rientra tra le donazioni dell'imperatore alla diocesi suburbicaria di Albano Laziale.
Il primo nucleo insediativo di Nemi, come castrum, risale all'XI secolo, probabilmente a opera dei Conti di Tuscolo, cui apparteneva.
Un discorso a parte merita il santuario di Diana. Il complesso monumentale è il più importante dell'intero bacino nemorense e sorge sulla riva settentrionale del lago, in un luogo altamente suggestivo.
Il culto della dea, che qui era venerata nel suo triplice aspetto di cacciatrice (Diana), protettrice delle nascite (Lucina) e della luce notturna (Selene), risale almeno all'età arcaica (VI secolo a.C), e probabilmente è stato preceduto da un culto "silvestre" già in età protostorica. Catone (or. 58) riporta la notizia che fu Egerio Bebio, dittatore di Tuscolo, a dedicare un recinto sacro a Diana nel bosco aricino; una notizia simile è fornita da Festo, che però attribuisce la fondazione del luogo di culto a Manio Egerio di Ariccia.
Alla originaria Diana latina, dea legata alla natura e alla fertilità, nel V secolo a.C. si sovrappose una feroce Artemide proveniente dalla Tauride (odierna Crimea), che esigeva sacrifìci cruenti e il cui sacerdote, il Rex Nemorensis, era uno schiavo fuggitivo, che sostituiva il suo predecessore dopo aver staccato da una quercia del bosco sacro alla dea un ramo di vischio e averlo ucciso in duello. Il culto sarebbe stato importato dalla Grecia tramite Oreste e Ifigenia, i figli del re di Micene Agamennone.
Non è questa la sede per esaminare i complessi valori storico-religiosi del culto, oggetto di numerosa bibliografìa, a partire dal famoso I/ ramo d'oro di James Frazer, testo fondamentale degli inizi del Novecento per lo studio della storia delle religioni, che prende il titolo da un noto acquerello di William Turner conservato alla Tate Gallery di Londra.
In età arcaica il culto doveva svolgersi all'aperto, nel "bosco sacro" (il nemus da cui ha tratto origine il nome l'odierno centro di Nemi) senza un vero e proprio tempio, che venne costruito solo nel IV secolo a.C. con un impianto di tipo etrusco-italico, in legno rivestito di terracotta, secondo un modello che ci è pervenuto e che si trova a Nottingham. Di entrambi questi periodi non si conservano tracce. Per un certo periodo, probabilmente tra la fine del VI secolo a.C. e il IV, il santuario fu anche sede della Lega Latina, disciolta nel 338 a.C.
L'impianto attualmente visibile è attribuibile alla fase monumentale della fine del II secolo a.C. e ai restauri imperiali degli inizi del I secolo e del II secolo. Il complesso consiste in una terrazza di 200 per 175 metri, sostenuta verso il lago da sostruzioni triangolari, verso il monte da nicchioni semicircolari. La tecnica impiegata è quella dell'opera incerta, che utilizza scapoli non lavorati di peperino e basalto, materiali di origine vulcanica reperiti in zona. All'interno si trovavano numerosi edifìci: il cosiddetto tempio K, convenzionalmente identificato con quello di Diana, gli ambienti per i sacerdoti e forse per i fedeli, terme e bagni idroterapici, in quanto la dea, oltre a favorire le nascite, aveva anche qualità salutari, legate alla vicinanza dell'acqua del lago e di alcune sorgenti.
Nel I secolo a.C. venne aggiunto al santuario un teatro, con orientamento leggermente deviato, dove probabilmente avvenivano spettacoli in onore della dea, forse il duello fra i pretendenti al sacerdozio, ormai trasformato in spettacolo. Dal teatro provengono numerosi rilievi e frammenti di statue.
Nel corso del I secolo a.C. vennero realizzati alcuni ambienti, addossati al muro di fondo del santuario, che, per la ricchezza di oggetti che vi si trovarono all'interno durante gli scavi dell'Ottocento, vennero definiti "celle donarie".
Il luogo sacro fu frequentato fino ai primi secoli dopo Cristo poi, con l'avvento del cristianesimo, fu abbandonato e divenne, come molti altri monumenti antichi, una cava di materiali da costruzione. Tra il XVII e il XIX secolo vennero intraprese varie campagne di scavo da parte di spagnoli (cardinale Despuig), inglesi (sir Savile Lumley) e, solo alla fine del XIX secolo, italiani. Gli scavi portarono al rinvenimento di numerose statue e opere d'arte, confluite in gran parte in collezioni e musei straniera (Palma de Maiorca, Boston, Philadelphia, Copenaghen, Nottingham) e solo in parte in raccolte italiane (Museo Etrusco di Villa Giulia e Museo Nazionale Romano, a Roma).
Le indagini avviate dalla Soprintendenza Archeologica per il Lazio nel 1989 sono iniziate in un'area mai indagata: l'angolo nord-orientale, dove si è rinvenuto un porticato, con due colonne in opera incerta e due in opera mista di reticolato e laterizio. Mentre le prime risalgono alla fase tardorepubblicana, le altre sono attribuibili a un restauro adrianeo, già attestato da un'iscrizione e confermato dal rinvenimento in opera di mattoni bollati, con la data di fabbricazione. Le colonne, conservate per un'altezza di oltre 2 metri, erano rivestite con intonaco rosso scanalato e avevano trabeazione dorica in peperino rivestita con stucco bianco e, forse, azzurro. Dietro il colonnato si è rinvenuto un muro in opera incerta, in cui si aprivano passaggi regolari ad arco, collegato al portico mediante un tetto con tegole bollate, che confermano il restauro di quest'area del santuario, avvenuto in età adrianea, con piccole riprese di età antonina. Dietro il muro si è evidenziato un secondo colonnato, in peperino, con trabeazione dorica, le cui dimensioni sono esattamente la metà di quelle del primo. La ripulitura del muro ha permesso di individuare una pittura con elementi decorativi consistenti in fìnti pilastri prospettici color avorio su uno sfondo rosso, che davano l'illusione di un portico aperto su due lati. In fondo al muro, addossato all'angolo, un basamento quadrato rivestito in marmo forse sosteneva una statua.
Sondaggi limitati sono stati condotti in corrispondenza del tempio K, che presenta un elevato in opera reticolata di peperino, conservato per oltre 6 metri, parzialmente inglobato in un casale. Si è riportato alla luce il podio modanato con rivestimento in blocchi squadrati di peperino, una colonna con stucco a fìnto marmo e un capitello di anta in stile corinzio. Esistono tuttavia fondati dubbi sull'identificazione di questo edificio con il tempio di Diana; esso è infatti alquanto decentrato rispetto all'asse del santuario e inoltre, per analogia con altri complessi sacri coevi (Palestrina, Tivoli), l'edifìcio di culto dovrebbe trovarsi in posizione dominante. Pertanto sono stati avviati sondaggi sulla terrazza superiore dove, in una ricostruzione dell'Ottocento, l'archeologo Pietro Rosa aveva ipotizzato dovesse trovarsi il tempio. I limitati saggi hanno riportato alla luce due muri paralleli in opera cementizia, che rendono certa la presenza di altre strutture sulla terrazza superiore e lasciano aperta la possibilità di posizionare qui il tempio di Diana. Ulteriori ricerche potranno confermare o meno questa ipotesi.
Il santuario di Diana costituisce uno degli esempi meglio conservati di architettura mediorepubblicana di tradizione ellenistica, insieme con altri santuari laziali coevi: il santuario di Giunone a Gabii, quello di Ercole Vincitore a Tivoli, quello della Fortuna Primigenia a Palestrina, quello di Giunone Sospita a Lanuvio, quello di Giove Anxur (o Feronia) a Terracina e quello di Esculapio a Fregellae. Questi complessi sacri hanno in comune oltre alla datazione (essendo tutti inquadrabili tra la seconda metà del II secolo a.C. e la prima metà del I a.C.), le dimensioni monumentali, l'impianto scenografico, la posizione extraurbana, la presenza di un "bosco sacro" (vero a Nemi, ricostruito a Gabii e forse a Tivoli), il significato salutare, la presenza di un oracolo (a Palestrina, forse anche a Nemi). Del tutto originale è invece la funzione politica del santuario di Diana come sede, almeno per un periodo, della Lega Latina che aveva il proprio luogo di riunione al Lucus Ferentinae, sotto Monte Savello, in un'area posta anch'essa, come il santuario, sotto la giurisdizione di Arida. La frequentazione del complesso sacro dovette cessare quando vennero chiusi i luoghi i luoghi di culto pagani, a seguito dell'editto di Valentiniano e Valente del 391 d.C.; di lì a poco al culto di Diana si sostituì quello cristiano di san Michele Arcangelo.di culto pagani, a seguito dell'editto di Valentiniano e Valente del 391 d.C.; di lì a poco al culto di Diana si sostituì quello cristiano di san Michele Arcangelo.
La presenza più nota del lago di Nemi è stata tut­tavia, per secoli, quella delle navi imperiali ritenute di Traiano, poi di Tiberio e solo successivamente cor­rettamente attribuite a Caligola. I primi tentativi di recupero dei due scafi iniziarono nel XV secolo, con Leon Battista Alberti, e proseguirono in quelli successivi, intensificandosi nell'Ottocento e provocando la parziale distruzione delle navi e la perdita di preziosi dati scientifici, a causa dei metodi usati. I materiali rinvenuti in quelle occasioni in parte andarono dispersi o furono venduti ad antiquari, in parte confluirono nel Museo Nazionale Romano e in altri musei europei.

Solo tra il 1929 e il 1931 si potè attuare, grazie al ripristino dell'antico emissario, il parziale prosciuga­mento del lago, che fu abbassato di oltre 20 metri, e il trascinamento a riva dei due scafi. Il primo misurava 71,30 per 20 metri, la struttura portante era in pino e in quercia e l'elevato era costituito da padiglioni, bagni, ambienti di soggiorno, edicole e padiglioni. Il secondo scafo (73 per 24 metri) era in peggiori condizioni del primo, mancando del ponte e di parte della chiglia; la simmetria di prua e poppa ne agevolava i movimenti nel lago. Le due navi erano dei grandi palazzi galleggianti, sui quali l'imperatore Caligola amava dare feste, non diversamente da quan­to fece Domiziano nel lago Albano; molto verosimilmente avevano anche una funzione sacra e cerimoniale in relazione al vicino santuario di Diana, che in età imperiale viene assimilata alla orientale Iside, di cui Caligola era fervido fedele.
Purtroppo un incendio nel 1944 causò la totale distruzione dei due scafi, che erano esposti in un museo appositamente costruito sulla riva settentrionale del lago. Si salvarono solo alcuni macchinari delle navi e la parte espositiva, che era stata nel frattempo portata a Roma per sicurezza. Quella delle navi nemorensi resta una grave perdita dal punto di vista scientifico, in quanto esse costituivano un esemplare unico di "palazzi galleggianti" e avevano restituito una notevole quantità di dati tecnici e ingegneristici sul­l'architettura navale.
Il Museo delle Navi Romane, dopo decenni di chiusura, è stato riaperto nel 1988, con un allestimento parziale che in questi anni (1995-99) si sta ampliando, nell'ambito di una riqualificazione e un totale recupero anche dell'edifìcio museale.

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